Poesie Facili: intervista con Stefano Annibali


Qualche tempo fa ho scoperto un blog interessante, artistico, originale. Si chiama "Poesie facili", scritto da Stefano Annibali. Il blog raccoglie poesie brevi, con uno stile ed un carattere unici, che mi hanno affascinata.
Ho contattato il loro autore e l'ho voluto intervistare qui sull'Androide, perchè la semplicità e la bellezza di quello che scrive mostrano un lato del minimalismo un po' diverso da quello che tratto qui abitualmente, che vale la pena di scoprire e guastarsi!



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Stefano, quello che scrivi è molto bello e anche molto originale. Da dove vengono le "poesie facili" e come è nata l'idea?


Le poesie facili mi vengono da sole. Ma non è sempre stato così.
C'era una poesia sull'alba che non riuscivo a scrivere, Alba di colori, Alba al declino o qualcosa del genere. Ho provato decine di varianti senza che mai funzionasse. L'ho ripresa mesi dopo, anni dopo e ancora non andava bene. E non va bene ancora. Io lavoro organizzando gli scritti tramite cartelle in cui confluiscono per categoria, LEI ha una cartella a parte, rappresenta solo la sua categoria; in quel testo ci sono tutti i miei tentativi e i fallimenti, gli accanimenti e le esasperazioni, tutto ciò che fa gola e scoraggia, tutto ciò che decora, tutto ciò che annoia. Lasciai perdere per anni il discorso delle poesie.

Prima di questo c'erano i racconti e prima ancora c'erano le battute. Il maggior sforzo espressivo era sempre stato riversato nelle battute.
Ero a Venezia e il mio coinquilino segnava ogni mio sfogo, ogni storpiatura grammaticale, conclusione paradossale e accostamento esilarante; un giorno cominciai a farlo anche io, con lui, con i miei amici e con me stesso imparando allora a fermare le parole che mi attraversano, un processo di consapevolezza e conservazione che i più rifiutano di fare, seppur càpiti loro di dire cose memorabili. Se si vuole scrivere, la regola numero uno è portarsi dietro un taccuino e segnare le frasi interessanti, anche se ci sembra di poterle riprodurre in seguito: difficilmente uno stesso corso di pensieri - con tutte le connessioni che comporta - potrà riproporsi, né è probabile che si riesca ad agganciare di nuovo quella piccola rivelazione che abbiamo colto.
Così presi ad annotare ogni immagine, ogni suggestione, ogni invenzione significativa e iniziai a scrivere cose inventate. E passarono altri anni.
Un pomeriggio ero a casa di amici, un incrocio tra una sit-com, un convegno di filosofia e un'officina di creativi. A quel tempo tiravamo avanti a parole e caffè - il caffè era un modo per avere obiettivi tangibili - sul tavolo della cucina era appoggiato un cucchiaino, lo presi, lo guardai osservando l'immagine oblunga che rimandava e dissi: “questo cucchiaino, tondo, riflette il mondo”, mi urlarono: “scrivilo! scrivilo!” e quella fu l'origine delle Poesie facili.

Poi ne sono arrivate altre, un po' trovandomele già pronte sulle labbra, un po' per concomitanti sfoghi d'amore, un po' come epifanie sulla comprensione del mondo. Mi uscivano testi brevissimi, sintesi lapidarie ma, diversamente dalle solite battute, questi erano curati formalmente e si facevano rileggere.
Mi resi conto che ogni pensiero poteva essere reso con cura e brevità, e l'effetto era di forte risoluzione, come ridurre un devastante groviglio in una piccola sfera preziosa, apporre un sigillo definitivo a un corso di pensieri. In breve dilagarono. Tutto diventava poesia facile, con decine di varianti notevoli, le pagine del taccuino si riempivano furiosamente per non perdere nessuno sbocco, una scoperta ne generava un'altra e io dovevo riuscire a starci dietro. A proposito di questo, mi ricordo un pomeriggio delirante in cui andai in biblioteca tentando di leggere Sulla quadruplice radice di Schopenhauer e cominciai a segnare frasi su frasi, sia attinenti che estranee, riportare una frase ne faceva sbocciare altre tre, la mia mente agiva come il generarsi di un frattale, sembravo guidato da una mano esterna, alla fine tornai a casa con quaranta abbozzi di poesie. Fu un giorno estenuante ma glorioso.

Verso le idee che ricevo mi sento responsabile. Per me esse sono nell'aria e chi scrive è un radar che le riceve, magari l'unico.
Ogni periodo, storico o stagionale, ha una dominante, le idee o le ideologie assodate di quel momento, le prospettive di quel momento, la visione del passato di quel momento, la moda, il gusto, l'eccesso o la sobrietà che rispondono alla loro recente storia. Ma vibrano anche sottili increspamenti che turbano il disegno del tempo. Ci sono uomini capaci di decodificare i segnali in modo più ricettivo, capaci di cambiare la rotta del futuro dandogli un'altra piega e portare avanti riflessioni che guardano oltre il sicuro presente. Sono bravi a cogliere ciò che c'è nell'aria, che c'è ma che gli altri, ingessati e stanziali sul presente o indaffarati a correre avanti per raggiungere un altro avanti, non vedono. Questi in genere sono gli artisti e i grandi uomini.
Poi ci sono tutti gli altri, che seguono la tendenza e ripropongono varianti o addirittura “miglioramenti”, che ripetono fino alla nausea una maniera e un modo di vedere. Ad esempio, nel campo dell'arte, ci ritroviamo a cento anni di distanza con emuli di Duchamp ancora a decontestualizzare oggetti, a mettere un bicchiere in mezzo alla sala di un museo, non comprendendo che quello di Duchamp non è un nuovo percorso dell'arte ma un proprio affare personale, suo e basta, in cui non si dovrebbe ficcare il naso. Che ce ne facciamo di una brutta copia?




Da cosa nasce lo stile che utilizzi per le tue opere e che evoluzione ha seguito il tuo modo di scrivere?

Sono cresciuto in una famiglia in cui per farsi capire bisognava emergere e dire le cose con grande semplicità, pena la distrazione o la difficoltà a seguire il filo del discorso. Così dopo anni ho maturato dimestichezza sull'ascolto delle persone. Molti parlatori, oltre a ripetere formule già sentite, non hanno chiaro quanto debole sia l'attenzione altrui, quanta la fatica di dilungarsi sui segni e sulle astrazioni di un ragionamento: bisognerebbe sempre ascoltarsi esternamente. A casa mia l'attenzione te la dovevi guadagnare e la dovevi difendere con continui accorgimenti e sorprese, la soglia d'attenzione era bassissima e gli scopi intellettuali di tutt'altro tipo rispetto alle cose che interessavano a me. Così ho imparato a mostrare ciò che di utile e pregnante c'è in quello che mi interessa, a usare un linguaggio altrui per dire le mie cose. Ho cominciato a formulare periodi brevi e raggiungere velocemente il risultato; poi altri tempi e circostanze mi porteranno alla pratica inversa dello scandagliamento di un discorso, portandolo ad allargarsi fino a notte inoltrata. Da questi due opposti approcci ho imparato a comunicare con qualunque categoria di persone, ad adattarmi al lessico ricco e povero, a scardinare la disattenzione, dare appigli, portare a destinazione il contenuto che voglio trasmettere.

Lo stile è una miscela di Mondo e Io. Seguire solo le regole del Mondo, per quanto importanti, dà un risultato tecnicamente pregevole ma anonimo, soddisfa un momento e poi ce ne si dimentica, è il caso di molti nuovi narratori preparatissimi ma incapaci di lasciare qualcosa, di essere memorabili. Seguire solo le regole dell'Io, d'altra parte, porta a risultati noiosi e privi di interesse, tipicamente l'Io non segue regole artigianali ma solo le proprie pulsioni e i propri bisogni arrivando a scrivere della diaristica, con una scrittura spesso sciatta. Lo stile è quindi la scelta - dovuta a esperienza e vocazione - di come collegare gli elementi dei due mondi usando come spinta propulsiva il proprio carattere.
Il mio stile nasce dalla conoscenza di me. Il pensiero più importante della storia dell'uomo - e significativamente anche il primo della filosofia occidentale - è: “Conosci te stesso”, sono passati migliaia di anni e resta ancora il più valido dei principi di saggezza. È come un atomo, non lo si può ridurre e non lo si può dire meglio, tutto ritorna a questo concetto semplice e limpido, seppur arduo da realizzare.
All'inizio scrivevo un diario con i miei sfoghi illeggibili e patetici; poi delle letterine d'amore (che hanno il pregio di rivolgersi a un altro ma il difetto che costui è interessato); poi mi sono compiaciuto cimentandomi in evoluzioni fiorite di parole, appagandomi di suoni ricercati e vezzosi, un po' il problema del “purpureo” nelle poesie decadenti, quel genere di scrittura per cui ti dicono “che bravo che sei a scrivere!” e poi non ti rileggono più; dopo è sopraggiunta l'immancabile avanguardia casalinga e il sovvertimento delle regole narrative e grammaticali (che puntualmente riteniamo geniale e innovativo); quindi la fase delle idee realmente buone ma sbrigative, come avere l'idea di un dolce e proporre una zolletta di zucchero, fornire la volontà dello scrittore più che una storia; poi ancora la comicità e svagatezza elettronica da mail e chat, che però non funzionano se si cambia interlocutore; infine, arrivando ai pressi di me stesso, ho trovato la mia voce riconoscibile, in giusta tensione tra le richieste del Mondo e quelle dell'Io.
E così, forte di quella iniziale esperienza senza risultati, la poesia sull'alba - che, comicamente, non ha mai visto la luce - ogni cosa è venuta poi con leggerezza: all'inizio acerba, con picchi di efficacia alternati a grandi fatiche ritmiche, poi sempre più plastica e tonda.

Nelle attività creative sovente si opta per strade insincere, ci si proietta verso esiti che hanno una qualche attrattiva ma che in realtà non ci includono. Molti non assecondano la loro indole (magari allegra) per cimentarsi in ciò che desiderebbero essere (magari tetri); io vorrei essere un geniale scrittore di gialli e invece ciò che mi riesce facile è sfornare piccoli componimenti ritmici. E allora ho deciso di adeguarmi, o meglio: non soffoco questa vocazione.
Trovare la propria voce è sviscerarsi, liberarsi dall'opinione più riconosciuta e proporre il nostro cammino, la peculiare efficacia comunicativa, i pensieri non indottrinati. Bisogna avere il coraggio di abbinare due colori inconciliabili se questo gusto ci rispecchia, il coraggio di divergere dai maestri, di proseguire per il viottolo laterale se la strada non va verso di noi, il coraggio di essere improbabili, discordi, nuovi, di essere quello che già si è, come diceva Agostino.



Se dovessi parlare del tuo stile a qualcuno che non ha mai letto nulla di tuo, cosa diresti?

Direi che è sempre reale e sempre mentale. Uno dei redattori della rivista online con cui collaboravo disse che con i miei lavori non sapeva mai cosa aspettarsi. Faccio mie le sue parole perché ha indovinato lo spirito con cui cerco e scopro ogni testo.
Nella mia scrittura riscontro abitualmente una serie di aspetti: un tessuto di parole semplici punteggiato da qualche termine pregiato; ricerca ritmica e contemporaneamente un freno alla liquidità; almeno un'idea per frase; non troppe idee per frase; almeno un vocabolo che faccia da perno luminoso; non troppi perni luminosi; elementi paradossali; umorismo; accoppiamento di linguaggio alto e basso; ripetizioni e omissioni; una sola qualità alla volta; sfrondamento di chiarimenti e lungaggini esplicative. Se posso dire con meno parole senza perdere colore lo faccio; cerco di usare un solo aggettivo perché l'attenzione non dura oltre il primo e l'immagine si diluisce; non spiego ulteriormente un concetto perché sarebbe ridondante e tende a non essere letto. Scrivere “scaltro e veloce” è senz'altro meno efficace di dire “veloce”, scrivere “so benissimo come fare quelle cose” è meno efficace di “so come fare quelle cose”, ogni qualità e accrescimento ulteriori tolgono forza. Raccomandare, suggerire, condannare o polemizzare è meno efficace di mostrare: il nostro modo di condurre un discorso sarà più evidente di mille consigli di stile.

La mia scrittura avviene in due tempi: l'appunto convulso su carta e la posa ragionata al computer. Sulla carta (taccuini, biglietti del treno, fazzoletti, rosari mentali, telefonini, telefonini altrui) getto le parole per non perderle; al computer recupero e verifico concretamente la loro qualità, scremo e soprattutto ricreo. Sono metodi diversi di scrivere e pensare: dove là aggancio delle idee, fisso delle suggestioni e capisco il mondo, qua invece poto, limo, manovro musicalmente. Tolgo e modifico ciò che non mi dà ritmo e spesso cambio bellamente il significato originario di una frase per farla calzare meglio: ciò che conta è dire comunque qualcosa di interessante e vero. 



Quali potenzialità vedi in una forma poetica "minimalista" come la tua? Cosa vorresti succedesse, quando si leggono le tue poesie e che tipo di comunicazione vorresti instaurare con il lettore?

Le Poesie facili sono comunicazioni che non si possono ulteriormente ridurre, comunicano già tutto nella loro forma. Il lettore ne ha, quindi, un controllo perfetto, può possedere l'oggetto-poesia e rigirarlo da ogni parte per studiarlo. Tale operazione è spronata dall'evidenza della sua forma levigata, e dalla sfida che ci pone: “suona bene, ma c'è altro?” questa essenzialità chiede di essere arricchita. Le Poesie facili hanno il chiaro vantaggio di arrivare a chiunque, in qualunque momento. L'impegno per arrivare a leggere l'ultima parola è minimo (a tal punto che la fruizione naturale diventa quella della raccolta), la struttura è conclusa e facile da dominare, i suoni hanno il giusto bianco per acuirsi, l'evidenza risalta di più, i concetti sono ridotti a pochi termini in cui indagare. Se se ne ha dimestichezza - come tra i miei amici - le Poesie facili si prestano ad essere citate e spesso rimpiazzano una spiegazione.
A me basterebbe che il lettore si sentisse appagato, che le rileggesse volentieri. Ho lavorato per questo.



Quali sono gli autori "famosi" che ti ispirano e che senti vicini al tuo modo di scrivere?

Uno dei vertici della lingua italiana si è raggiunto con Italo Calvino. È esaltante come scolpisce la parola, lima le frasi, leviga e taglia fino a liberare un diamante. E inoltre ha delle cose da dire, che non sono parole, ma immagini, concetti, strutture. In un paese di analfabeti scientifici, è stato uno dei pochi scrittori non umanisti, non prettamente letterati. Non è un caso che sia apprezzato in tutto il mondo.
E poi naturalmente c'è Giacomo Leopardi, un genio del pensiero e un genio musicale, capace di rendere la parola materia fluida, di indurre vertigini in chi l'ascolta.
Tra gli scrittori italiani in attività spicca Roberto Piumini, la sua è scrittura di gloriosa poesia e perfezione, la più sobria e al contempo ricca, che racconta storie finalmente importanti (consiglio la trilogia de Lo Stralisco - se riuscite a reperirla - e Le opere infinite).
Tra gli scrittori di altre lingue cito Roald Dahl, la cui opera è un monumento al piacere della lettura; J.L. Borges che amava come me le idee geometriche e prediligeva scrivere in forma breve; e il grandissimo J.R.R. Tolkien che con Il Signore degli Anelli ha saputo scrivere una storia che ama se stessa, creando un miracolo. In comune abbiamo il modo di procedere senza sapere come va a finire.
Ci sono autori a me affini come Fernando Pessoa, spesso abbiamo capito le stesse cose e le abbiamo dette in modo simile. Ma non mi sono mai ispirato a nessun poeta, piuttosto mi affascina enormemente la lingua precisa e assoluta di alcuni filosofi e matematici tipo Euclide. Mi piace l'esattezza, l'ordine mentale.
Detto questo, dobbiamo dimenticarci di tutti gli autori che prendiamo a modello se vogliamo scrivere con la nostra testa. La loro influenza l'hanno avuta, hanno arricchito il nostro orizzonte e ci hanno spinto in una direzione, non prendiamo di più, non prendiamo la loro voce.



Hai pubblicato libri o raccolte?

No. In passato ho collaborato con una rivista online fornendo racconti e recensioni. Faceva uno strano effetto produrre lavori che sarebbero stati vagliati da un comitato redazionale: l'ho sempre spuntata tranne due casi.




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Immagine in ink





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